lunedì, settembre 25, 2006

Carpinteri a Roma


Non so perché Carpinteri sia stato importante, non riesco a ricordarmelo. Ma lo è stato.

Alla Nuova Eloisa venne da Rockstar, ospite di Igort. Avrà pensato “Questi ragazzetti mi chiederanno un disegno...”.
Dunque venne con un pacco di fotocopie di un suo disegno. Quindi ho una fotocopia di un originale, fatto apposta per noi, di Carpinteri.
Poi ci siamo rivisti alle Aldini e siamo diventati “amici”. Ovvero ci siamo scambiati idee, abbiamo chiacchierato, siamo stati a casa sua.
MA...
Non riesco a ricordare nulla che riguardi i fumetti.

Solo un buon consiglio.

Per l’8 dicembre mi piace essere lontano da Bologna, così ho una (1) scusa per mandare 1 (una) cartolina.
Nel dicembre 1989 avevo programmato una vacanza (piccola però!) a Roma. Carpinteri si era trasferito con Moglie nella Capitale e lavorava per Mamma RAI. Quindi lo chiamo (come avessi il suo numero non ricordo) e gli preannuncio la visita. “Grande! Andiamo a cena assieme, chiamami quando sei qui, ci vediamo...”.
Sono un po’ ragioniere in queste cose, prima arrivo a Roma. Preannuncio ai miei amici/che che avremmo incontrato il Grande Carpinteri! Il disegnatore di Fumetti!
Cristina mi fa: “OK, allora PERO’ sabato sera andiamo fuori dal Teatro delle Vittorie, a Fantastico c’è Steve La Chance e io DEVO vederlo! E voi mi accompagnate!”

Tre ore in piedi fuori dal Delle Vittorie nella bolgia con zero gradi per vedere (solo io che sono alto) Anna Oxa di spalle che esce da una Mercedes, manco si gira a salutare!. Povera Cristina.

Il giorno dopo, come da accordi, telefono a Carpinteri che, sfiga, ha un impegno improvviso e declina l’invito. Mi consiglia però il ristorante: Hostaria da Maurizio e Natalino – Corso Francia.
E noi ci andiamo, glielo devo! Ottimo posto, mangiato bene, visto Pietrangeli in OTTIMA compagnia. Grazie Giorgio.

Corso Francia, in quella zona, mi impressionò moltissimo. Vecchi opifici dimessi, lampioni alla Will Eisner, atmosfera strana di città che finisce, sopraelevate da una parte, il nulla dall’altra.
Poi mi faccio i miei viaggi. Nel 1993 Daniele Brolli scrive Animanera per Baldini e Castoldi.
Breve citazione di Roma (il romanzo è ambientato a Rimini), Corso Francia, ritrovo l’atmosfera. Ergo: Brolli a cena con Carpinteri c’è stato.
Nello stesso libro, in un bar di Rimini, Daniele piazza un vecchio (oggi vecchissimo) manifesto dell’INTER. Per me quel manifesto (campionato 88/89) era, ed ancora è, in una Pizzeria (ex Bar Olmo) di via Massarenti a Bologna (los chicos se recuerdan de el Hombre artista...).

Questa è la realtà.



martedì, settembre 19, 2006

Aprile 1986 – Blowing in the wind…



Ero in vacanza (sono sempre in vacanza?) alle Eolie, Salina. La giornata era uggiosetta. Avevo appena fotografato una rosa utilizzando il 50mm rovesciato (macro artigianale) appoggiato alla PENTAX ME super (il diaframma si tiene aperto con un dito) lungo il vialetto che portava alla spiaggia. La vacanza era in compagnia ma mi ero preso quel giretto da solo, avevo delle domande da farmi. La spiaggia sabbiosa era battuta da un vento indisponente, il mare grigio.
In bel tronco messo a mo’ di panchina, mi siedo, guardo il mare e mi chiedo “che ci faccio Qui?”.
In lontananza il vento trasporta un foglio di giornale. Pagina di un quotidiano, si alza, si abbassa, plana sulle mie Superga di tela. E’ di qualche giorno prima. Leggo (io leggo tutto, anche le etichette dell’acqua minerale a pranzo). In basso a sinistra, trafiletto: Stefano Tamburini è morto, trovato a casa sua dopo una settimana. Morto, solo.
Tamburini non l’ho mai conosciuto ma grazie al suo Snake Agent ho amato, manomesso, distrutto parecchie fotocopiatrici degli uffici in cui ho lavorato (adesso le so anche aggiustare...).

Le regole di APAZ: ci sono due tipi di persona che possono dirvi: “Mi piace il Mare”.
Quelli che quando arrivano in spiaggia si spogliano e si tuffano, si sbracciano, ti spruzzano e ti dicono “Allora, entri o non entri? Fredda? Macchè Fredda!!!!”.
Quelli che si siedono sulla sabbia e guardano il Mare.
Se questo fosse un film adesso partirebbero i titoli di coda con “I’ll Take the Rain” dei R.E.M.
Se questo fosse un fumetto di una pagina sarebbe Riki Andrews – Step by Step.

Andrea Pazienza - La semplici regole.



Ci sono cose che non dimentichi, mai, una a caso: “Se volete che un fumetto (di 8 pagine ad es.) appaia omogeneo senza far percepire che avete affinato i personaggi man mano che li disegnate, o al contrario che arrivate esausti alla fine con un calo di qualità, fate così: INIZIATE da META’! Arrivate alla fine e poi disegnate le prime tavole.”
Questo modo immediato di affrontare la tavola definitiva è tipico del Paz, la carta è il catino dove riversare (col pennarello) quello che nella mente è stato velocemente processato, sintetizzato, armonizzato con un unico fine: ipnotizzare il lettore.
Magnus naturalmente non ci avrebbe mai rifilato un fumetto senza un megastudio preparatorio, chi ha avuto la fortuna di vederlo all’opera anche per un semplice schizzo da regalare al cameriere dell’osteria sa cosa intendo (almeno 15 minuti di astrazione assoluta dalla realtà mentre pensava: “potevo portarmi una matita, adesso mi tocca di disegnare diretto a pennarello!” ).

Quindi, in base alla regola, inizio dalla fine.

L’ultima volta che vidi Andrea fu a Lucca 84 in compagnia del “mitico” Rapi. Era seduto su una gradinata, sembrava su un trono, solo. In realtà mi vide lui, e mi chiamò. “Oh, Andre’, ciao, ma come fai a essere così abbronzato con ‘sto tempo?”. Ero appena tornato dalla mia prima vacanza in Spagna o meglio Tenerife. Paz (forse si ricordava il mio nome perchè uguale al suo?) si era già allontanato da Bologna e non ci vedevamo da parecchio. Come stai, cosa fai, passi da Bologna? Moooolto difficile! “Beh, allora scrivimi.”, “ ...e dove?”, “Qui...” A pennarello su striscia di Carta: Andrea Pazienza c/o Editori del Grifo – Montepulciano SI.
Non gli ho mai scritto (cosa Poi?). Ogni tanto riguardo quel foglietto, per me lui è li.
Quel giorno si chiude con qualche “disegnino” di Cavezzali, Quino e… LI BE RA TO RE! E un ciao di Marcello Jori, che aveva parecchi impegni.
A Paz non ho mai ri-chiesto un “disegnino”, qualcosa di suo mi (ci) ha dato ma ne parliamo in futuro (o in passato, visto che siamo alla fine).



sabato, settembre 16, 2006

Il primo giorno di scuola di Andrea Pazienza – ultima parte


di Alberto Rapisarda

La Lavagna Sistina

Credo mi sia quasi impossibile mettere altri nella condizione, a parte quei cento detti e ridetti che parteciparono al primo anno di corso della scuola Zio Feininger, nella condizione, dicevo, di focalizzare come era davvero Andrea Pazienza docente. Egli, disordinatamente ed in clima di vacanze e cazzeggi [ben diverso dal nostro corso, serio e quasi d’accademiche pretese], diede un po’ di lezioni di fumetto anche alla Libera Università di Alcatraz, un posto ameno tra le colline Umbre, di proprietà di Jacopo Fo [che ne dirigeva anche tutta la struttura scolastica]. Qualche altra dozzina di persone l’ebbe dunque come insegnante, ma se vedete i filmini che furono girati ad Alcatraz su Paz, concordereste con lo scrivente: si trattava veramente d’un clima da villaggio turistico [ambiente in cui Pazienza avrebbe comunque primeggiato, ehehe].

Da noi NO! Nulla di tutto ciò.

Mi ci vorrebbe un attore a rappresentarlo, e solo allora – forse - ai molti che leggono questi ricordi, o quelli di altri corsisti, come Carubbi e Franzaroli, si leverebbe quel velo opaco che ci impedisce di spiegare come esso era…

Be’, dato che sto qui davanti al PC a scrivere di tutto ciò, ci devo ben provare, magari proprio con l’ausilio del paragone cinematografico. Già… nel suo libro su Pazienza, nella sezione centrale - un’ampia raccolta fotografica -, Giubilati definisce uno scatto per Frigidaire davvero come “cinematografico”. E si! Perché per Paz la fisicità era essenziale. Posava spesso e volentieri davanti alla macchina fotografica, ed anche alla cinepresa. Somigliava nei suoi sguardi cattivi, quando si illuminava di pensieri alla Zanardi, al Gian Maria Volontà gelido e sanguinario, come diretto da Sergio Leone - ma anche, nel suo nasone a patata [“questa specie di escrescenza”, diceva], e in tutti gli imbarazzi da studente foggiano fuoricorso, al Massimo Troisi “non immigrante, in vacanza!” - meridionale della costa opposta dell’Italia, ma uguali, i due [oltre alla vaga, ma non poi tanto, somiglianza fisica] anche nell’incapacità di parlare un italiano senza inflessioni, e perciò nell’essere prigionieri d’una macchietta a volte coltivata, troppo spesso rimasta appiccicata addosso senza volerlo

Per due/tre mesi Pazienza aveva insegnato con questi riferimenti involontari cuciti addosso. La fine dell’anno s’avvicinava, e lui sapeva benissimo – anche se partecipava sempre più spesso, e sempre volentieri, a comparsate televisive – che il suo modo d’essere personaggio sul palco dell’aula scolastica non aveva prodotto successo alcuno.

La gente lo fissava silente ed aspettava qualcosa. Nel suo essere misterioso ed evasivo, allora Paz si circondava d’ospiti [“regaz, questo è il mio carrrissimo amico Nicola Corona, detto Nik!”] che potevano legittimarlo capobanda da spaghetti-western.

Poi, per farsi perdonare le innocue malignità da rockstar, arrivava con le tavole del nuovo fumetto, “Lupi”, e con un pennarello coprente ritoccava qualche vignetta non ancora finita finita, o allo stadio delle matite. Si faceva così un po’ ammirare, come il ragazzino abile con le matite colorate alle medie od alle elementari, che tutti i suoi compagni idolatrano, ma, appena si spostano le luci dei riflettori, resta un “misfit”, un perdente della vita che si sfoga col disegno - qualcuno a cui forse nel profondo preme più il consenso della mamma che lo aspetta a casa, o soprattutto della ragazzina coi capelli rossi all’ultimo banco.

Ecco qui: Paz si esibiva, poi ironizzava su sé stesso, poi, ancora, si esaltava, e, appena finito il tempo della lezione, tornava alle sue malinconie incurabili – lo sapevi in Osteria, o dalle soffiate delle ragazze che, a turno, lo “accompagnavano a casa”.

Eppure la sua incapacità di lavorare sul suo “personaggio pubblico” si riduceva a dei motivi molto semplici. Facciamo un passo indietro.

Nell’autunno del 1983 Bologna fu invasa di cartelloni che pubblicizzavano questa nascente Scuola del Fumetto Zio Feininger. Alcuni manifesti riproducevano un grande disegno di Carpinteri, tuttavia la più parte – dovette far davvero colpo! – era un’illustrazione di Paz in cui due persone correvano per le strade (di Bologna?), dopo la pioggia. Di essi si vedevano solo i piedi, ma, a parte la prospettiva del marciapiede a scomparsa, Pazienza si era divertito a disegnare attorno alla pozzanghera tutta una serie di omini, e case, montagne, la pozzanghera stessa era un laghetto in questo paesaggio surreale, minuscolo ma caotico, molto alla Moebius, delizioso!

Così un giorno entrò in aula, e disegnò delle montagne che delimitavano un laghetto. Qualcuno, forse, fece subito il collegamento. Paz disse solo “se disegnate una pozzanghera…” essa è come un laghetto. Disegnata la pozzanghera. “Poi, se a sovrastare la pozzanghera vi è un palo della luce…”. Disegnò il palo della luce, ed il suo riflesso increspato nell’acqua. La gente taceva, lo guardava. “Poi se c’è un muro”, ed ecco che il muro (dove aveva notato “I° piano”) si riflette anch’esso nella pozzanghera. Poi sopra il muro scrisse INFINITO, poi sotto, ehm, MURO. Più sotto POZZANGHERA… Aveva detto tutto, ma volle rincarare la dose, la lezione era agli inizi. STAGNO, ACQUITRINO, LAGHETTO, PISCIATA, FOGNA, da collegare con un vettore a doppia freccia, a: POZZANGHERA. Poi STRISCIA DI TERRA, ISTMO, SPIAGGIA, questi collegati a MARCIAPIEDE.

Bene: ora avevamo uno schemino fatto di pozzanghere/laghetto, un muro, il marciapiede, e un sacco di parole in maiuscolo collegate da fumose freccine intersecantisi a confondere la classe. La quale classe sempre taceva. Pensava forse: abbiamo di fronte la rockstar Pazienza, e ci disegna un muro, delle freccine? Paz stette lunghi minuti in imbarazzo, fissando ora il “muro”, ora la classe. Il muro, la classe, il muro, il muro.

Poi accadde. Quello che avrei voluto spiegarvi a parole, e che ora racconto con immagini verbali. Fu il Paz cattivo bandoleros che ripensò alle bache secche ed a tutte le sue menate maliziose, che ci osservò con scherno, ed osservò il muro. Poi ecco la sua sfiga meridionale, e dall’immobilità assoluta, si rasserenò (si ridimensionò?), si girò di scatto, prese il cancellino e disse “vabbè - ”

Con la lavagna ripulita, ridisegnò la pozzanghera, in prospettiva, col punto di fuga verso destra. Poi il marciapiede. Anzi: “regaz, dovete inserire tutto in un contesto. Sul marciapiede vi è un omino con impermeabile e nasone. Capelli al vento. La sua sagoma si riflette frastagliata sulla pozzanghera”. Era Zanardi, ancora lui. “Al suo fianco un lampione, ricurvo. Poi ancora una pozzanghera, stavolta sul marciapiede. Ed un muro. Anzi, una parapetto. Meglio: di marmo. Potete sbizzarrirvi con le colonne, molte”. Disegnava, parlava e disegnava.

“Adesso il muretto/parapetto delimita un terrazzino a semi cerchio. Essì, perché siamo molto in alto, ed il terrazzino è un belvedere. Sotto… sotto si intravedono degli alberi, dei sempreverdi. Un pino. Un’olea fragrans. Un declivio. Sterpaglie. A destra ancora del verde, ma anche degli alberi spogli, di cui fanno capolino solo alcuni rami rinsecchiti. Ora scendiamo. Ci sono delle abitazioni. Delle fabbriche. Coi camini che fumano. Dei campi lavorati, appena arati. Vedete?”. Ormai il muretto era trasformato in un panorama abbastanza ampio…

“Ora una strada tortuosa, sterrata. E quasi parallelo un fiume. Che si allarga in un punto. Disegniamo un laghetto prodotto dal fiume, ed in mezzo al laghetto un isola, tre alberi, con tre cappelli di verde”.

Poi: “oltre il fiume ancora campi pieni di verde, ed infine il mare, uno spuntone di roccia che scende a picco tra le onde… sopra di esso un faro. Il fascio di luce del faro punta al mare, alle …”.

Barchette? Ora avevamo sulla lavagna un bellissimo panorama. Raccontato da una voce intima di memorie, di Gargano, di giornate di caccia, di serate tardo estive. Pazienza – forse solo il Maestro Raviola possedeva altrettanta potenza immaginifica – creava le sue opere per induzione, per viaggi mentali, per fantasie.

Ogni tanto si allontanava, osservava l’opera, ripeteva “vabbè”, e magari ritoccava appena. In alto, al posto delle barchette interrotte, scrisse PANORAMA, più a destra PUNTO DI VISTA, poi ECC…

La classe era altrettanto basita. Ma non per disappunto. Egli, pure “il maestro” (con la M) Pazienza aveva donato la sua procedura, il magico che metteva nelle sue tavole. Aggiunse, ormai sciolti i flussi di generosità e sincerità, “il panorama all’infinito, mare, costa, ecc..”

Non vi furono molti altri ecc. Nelle settimane seguenti, alleggerito, riempì molti cartoncini di Zanardi a colori, di Francesco Stella con ombre reali e ombre portate… ma quello fu davvero il primo giorno di scuola di Andrea Pazienza… e, forse l’ultimo: tutte quelle tavole estemporanee erano autografi, regali ai fans, ai molti fans che erano, e restarono, solo spettatori al Corso, per godere degli effetti speciali o per recuperare qualche souvenir in fumetto.

Paz tornò spesso alla sua malvagità recitata, a volte purtroppo sincera!

Ma si rilassò. Forse in quel giorno di lezione imprevista imparò ad essere un buon docente di fumetti, ed un tutore, un punto di riferimento, forse anche amico, per coloro che avevano deciso di seguire seriamente i suoi passi.

Conclusione

Ho telefonato ad Andrea Baldazzi per chiedere se si ricordasse di quel poster del “mondo in miniatura”. Avendo scartabellato tutti i vecchi appunti dello Zio Feininger, e le mie tavole dell’epoca – ed inevitabilmente quelle di tempi più recenti (sapete, ordine è una cosa per pochi eletti) -, mi ritrovo in una stanza temporaneamente inagibile, nella quale avrei dovuto anche sfogliare la fumettografia di Paz. Nossignore. Preferisco rivedere i miei panorami – precedenti la “pozzanghera all’infinito” -, o gli studi che feci su vignette delle stesso Paz (colorate, incerte, coi Pantone più sgargianti), e poi tutti gli schizzi, tanti ritratti dei Beatles, i cieli stellati acquarelli-e-tempere per storie americane, e Riki Andrews…

Non so perché, ma dopo tanto ricordare Paz ed il Corso, m’è venuta voglia di rivedere le mie cose, le mie evoluzioni, le migliaia di studi che, dimenticati, m’erano serviti per costruire un fumetto fatto e finito.

Di Pazienza, bho! forse ho voglia di sentir ancora parlare… ma se Baldazzi non è stato in grado di rintracciare il gran poster di cui dicevo, non importa! preferisco parlare di me stesso, dei miei sudori al tavolo da disegno, di ieri, di oggi, e naturalmente del domani. Magari anche a me ci volle un po’ di tempo, ma il mio primo giorno di scuola è già arrivato da tempo, vediamo gli altri come saranno?

mercoledì, settembre 13, 2006

Ricevo e trasmetto APAZ Andrea Pazienza


Teatro Le ZeRBe e Teatrovunque
presentano
NEL SEGNO DI PAZ da Andrea Pazienza


con Antonio Carletti, Milena Fois, Giovanni Landi, Alberto Rizzi, Alessandro Scipilliti
drammaturgia e regia Antonio Tancredi
costumi Milena Fois e Alessandro Scipilliti
realizzazioni audio digitali Mauro Marchini e Tristan Martinelli
luci Federico Kata Canibus
fonica Tristan Martinelli
ufficio stampa Rosanna Tripaldi
organizzazione Teatrovunque


NEL SEGNO DI PAZ si presenta come un lavoro dolce e amaro, comico e violento, lirico e grottesco. Si inizia con Zanardi, Colasanti e Petrilli, i tre cavalieri creati dalla matita di Andrea Pazienza. Sono loro a gettare un ponte tra scena e platea, realtà e finzione, portando il pubblico attraverso un viaggio che si concluderà con un nuovo inizio, forse….
In una scena volutamente nuda, come il foglio bianco che aspetta di essere segnato, cinque attori , ma sembrano di più, danno vita a vari personaggi in un vorticoso gioco mimetico e trasformistico. Si passa così da storie dal forte carattere autobiografico, frammenti di vita studentesca a scenari psichedelici con protagonisti sempre meno umani. Tra una scena e l’altra irrompono i due mitici partician Paz e Pert, dove Pert sta per Sandro Pertini, abili guastatori sempre in lotta per la libertà. Una mosca irriverente, alterego dello stesso autore, interloquisce con il pubblico, presentando e commentando ciò che avviene sul palco.
Alla fine del viaggio due loschi figuri lasciano ad attori e pubblico una provocazione: e se la stagione degli sballi, delle frasi urlate, delle mode cambiate vorticosamente non fossero un modo per distoglierci da qualcos’altro, per vincere le nostre resistenze, per incatenarci ad un modello di vita che non si può scegliere, ma solo condividere?
Nel Segno di Paz è uno spettacolo da e su un autore che ci ha raccontato la fragilità di una generazione che ha tentato di scrollarsi di dosso verità precostituite per sognare e creare un’altro mondo, e nella sua sconfitta ci ha lasciato una grande lezione di libertà, urlando la sua resa invincibile. Chi assiste allo spettacolo avrà la sensazione di sfogliare un album dove le storie non hanno confini netti. Nel segno di Paz è pensato e vissuto come un concerto rock, una festa, dove restano sempre margini per l’imprevisto.


lunedì, settembre 11, 2006

Gli inediti di Andrea Pazienza: "Il mare d'inverno" di Franzaroli


di Giorgio Franzaroli

Andrea Pazienza
non aveva un metodo prestabilito di insegnamento, anzi, andava spesso a braccio.
Alcune volte credo che volesse stupire e basta. Come quando arrivò in aula con gli occhiali scuri (ma da vista) armato di katana, e incazzato disse che con noi voleva instaurare un rapporto zen fra maestro e allievo, cioè che se non avessimo fatto come diceva lui, ci avrebbe preso a bastonate. Ci fu silenzio, poi fra i banchi si levò l’allegro chiacchericcio divertito di noi, che avevamo capito che stava scherzando.
Però credo che Andrea non scherzasse affatto. Lui stava mettendo in pratica Kill Bill con vent’anni di anticipo. Andrea Pazienza era Hattori Hanzo, noi Uma Thurman, che invece di sfondare una tavola di legno a mani nude, dovevamo semplicemente riempirne una di carta, armati di pennarello. Altre volte ci metteva al lavoro con colla e forbici. Dovevamo inventare una sola vignetta, con sagome ricavate da cartoncino nero. L’unico intervento consentito con il pennarello era il lettering per la battuta. Non era una cosa buttata lì: Il risultato fu che alcuni pastrocchiarono scene incomprensibili, altri invece avevano realizzato delle vere e proprie gag autoconclusive, vignette con una battuta e via che sembravano fatte da Chiappori. Era il suo modo di scoprire chi aveva capacità di sintesi. Una volta ci disse "io faccio una sceneggiatura e voi la disegnate: la storia non la so, la facciamo adesso, partiamo dal titolo. IL MARE D’INVERNO! Come la canzone della Berté". E cominciò a disegnare a gessetti lo storyboard sulla lavagna, vignette su vignetta. Se avesse potuto asportare la grafite e stamparla su carta, sarebbe stata senz’altro una storia migliore di certe tavole pubblicate per inerzia. Era comica, demenziale e surreale: era la storia di uno sfigato succubo della madre, che è costretto a prendere un treno regionale solo per andare a vuotare la spazzatura dimenticata nella casa al mare. Frustrato dal treno e dalla madre, prende una barchetta per farci un giro senza saperla guidare e finisce in Yugoslavia. L’ultima persona ad averlo visto è una racchia bigotta che il protagonista prendeva per il culo durante il viaggio in treno, dicendole che stava andando a Saint Tropez. E mentre lui é prigioniero dei militari comunisti che lo credono una spia, le autorità italiane lo danno per morto perchè a Saint Tropez non c’è mai arrivato.
"Disegnai" la storia e chiesi ad Andrea se potevo pubblicarla sulla fanzine di Stefano Trentini, “Nuvola bianca”. Avendo di fronte a sé un ragazzino di 16 anni, mi disse che potevo farne quello che volevo. Chiaramente Trentini era molto contento di pubblicare una sceneggiatura inedita di Pazienza, anche se massacrata dai disegni di Giorgio Franzaroli. Siccome avevo già un po’ di senso del pudore, scrissi sotto al titolo “da un’idea di Andrea Pazienza”, così da scagionarlo da una sua involontaria (anche se consenziente) partecipazione alla mia iniziativa, e anche per evitare che il suo nome venisse citato sulla copertina in qualità di collaboratore attivo. Non so neanche se abbia mai visto un numero della rivista.
Se l’ ha fatto e non ha detto niente, vuol dire che era molto generoso.

giovedì, settembre 07, 2006

Il primo giorno di scuola di Andrea Pazienza - parte seconda [di 3]


di Alberto Rapisarda

Delle teorie delle ombre

Nel frattempo. Pazienza cominciava a domandarsi come sarebbe riuscito ad insegnare la sua materia, la narrazione a fumetti. Chiese consiglio a qualcuno, tra i suoi colleghi insegnanti. Ma restava un fatto: da dove attingere un metodo di docenza, nello zero assoluto, o quasi, di programmi didattici, di libri di testo, di esperienze – a parte qualche caso isolatissimo a Roma, Milano, nella stessa Bologna – di insegnamento dei fumetti?

Paz scansò molto abilmente, ancora per qualche settimana, tutto il problema, facendo per il momento memoria del metodo attraverso cui egli stesso aveva “imparato”, e che per molte vie traverse – compresi i suoi orridi, ehm, quadri -, lo aveva portato ad essere un divo dello stardom della nona arte. Ovvero il suo amato/odiato liceo artistico – che, come sapremo da varie fonti, non dovette essere così male, frequentato guarda caso, stessa città di Pescara, stessi anni, molti docenti comuni anche se in corsi diversi, da Tanino Liberatore (le estenuanti lezioni con modelli - nature vive e morte - traspaiono nelle prime prove fumettistiche di Pazienza, soprattutto in alcune timide anatomie prettamente accademiche - da cui s’affrancherà per fortuna ben presto -, che profumano di sagome inanimate, di corpi Leonardeschi, senza alcuna scintilla personale).

Soddisfatto di questo percorso a ritroso, Pazienza si dilungò sulla teoretica del disegno. Dire che non fece centro al primo colpo, non rende forse l’idea della delusione a cui, nelle prime lezioni da professorino pugliese, esponeva noi alunni. Non dimentichiamo infatti che l’adesione quasi oceanica (cento persone il primo anno!) era motivata per molti dalla presenza nello staff del divo Pazienza. Non tutti venivano a lezione per sudare mille camice sul foglio di disegno bianco, da riempire d’acquerelli, di linee chiare, di pointellismi. Per alcuni, ancor più per alcune, la lezione era uno spettacolo: la performance artistica del Divino Paz.

Difficile dire se Pazienza fosse in certo qual modo consapevole di tutto ciò, che cioè la gente voleva vederlo disegnare, e stupirsi, ed ammirare, come gli era successo tante volte tra le varie Lucca Salon dei Comics, e le feste di Frigidaire, e i molti happening fumettari che tra fine anni ‘70 e i nascenti ‘80 prendevano sempre più piede. Difficile dire, in altri termini, se tramasse d’essere un insegnante un filo crudele, che si fa desiderare come una bella donna, che si fa pagare e non-basta-mai, come prerogativa d’una Stella. Fatto sta che non ebbe migliori idee, in quest’ennesima fase di transizione, del dispensare lezioni su come si disegna. Assai improbabile, no? Un’ora soletta alla settimana, per di più serale, per illuminarci su come s’articolano le giunture delle mani, ché siano credibili – per dire il meno.

Annebbiato, una sera se ne uscì con una paludata chiarificazione su come le ombre si dividano in: 1- ombra reale, e 2- ombra portata. Io - stranamente come molti altri alunni/colleghi-destinati-a-pubblicare, provenivo dallo scientifico, e la manfrina della teoria delle ombre, che al liceo trovai affascinante, bellissima, chiarificatrice, l’avevo digerita volente o nolente nei cinque anni di disegno tecnico… quanti CONI posti sotto il fasci di linee PARALLELE della fonte luminosa “in teoria”, e tutte le proiezioni del vertice, e dei lati, eccetera.

Così anche il nostro insegnante, troppo concentrato ad impartire ‘sta benedetta Teoria, non ebbe da proporre null’altro che un manichino! Un viso d’uomo, molto Pazienzesco - poteva essere un Pentothal senza baffi, o il suo alter ego più maturo Francesco Stella -, ma per Paz fu solo un riflesso condizionato. Niente baffi? Non basta. Niente bocca, niente occhi, nessun padiglione auricolare, nulla di nulla se non l’ovale del viso, ed il nasone a patata che ben conoscete, proiettato per intero con tratto scurissimo, 2- ombra portata… sulla guancia; il medesimo nasone, scurito con leggero tratteggio, nel lato opposto la fonte luminosa, per definire la 1- ombra reale.

Le ragazzine che facevano a pugni per stare in prima fila, con le loro minigonne dark, con le calze velate attorno a gambe esili e desiderabili, un trucco leggero ma astuto, fiori tra i capelli… si guardavano imbarazzate, mentre Paz “regaz, per la prossima volta…” dava istruzioni su quante prove per conto nostro avremmo dovuto svolgere a casa - tutte le varianti (avete presenti quante varianti vi sono in una lezione sulla teoria delle ombre? no? frontale ombra laterale, frontale ombra bilaterale, tre quarti ombra posteriore, tre q…). Qualcuna di dette fan(s) forse meditò sul tornare a trascorrere le serate col moroso istituzionale. Senz’altro nessuna arrivò alla lezione successiva con tutte le varianti delle ombre reali e delle ombre portate. Noncuranti, tornarono ad occupare le primissime file, ed a sbattere le palpebre.

Che c’entra la Bertè?

La lezione che andava a svolgere quella sera doveva essersela rivista in sogno, davanti allo specchio, nel tragitto in macchina, lungamente quanto le repetitio d’uno dei suoi esami al DAMS. Pazienza s’apprestava a dare la sua prima vera lezione su come si fanno i fumetti. Anzi, parola d’ordine: facciamo un fumetto - fate un fumetto! L’idea non era tanto peregrina, e credo che gliel’avesse davvero suggerita qualcuno: ogni buon fumetto che circola sulla faccia del pianeta abbisogna prima di tutto d’una buona sceneggiatura. Ovviamente la materia “come si sceneggia un fumetto” era competenza di Daniele Brolli, così, se la memoria non m’inganna, le sceneggiature che Pazienza si portò appresso erano state scritte nella quiete casalinga, pronte da sciorinare precotte.

Una piccola osservazione va riservata al fatto che nella sua opera omnia – che io non possiedo “by heart”, indi prendetemi con le pinze – Paz s’era qualche volta appoggiato ad un collaboratore esterno proprio per la parte dei testi. Ad esempio il pluricitato Marcello D’Angelo, il Tamburini – per cui faceva i disegni sottobanco -, credo persino il politicante Nicolini.

Oggi – quel giorno – non solo era arrivato con un soggetto e con dei dialoghi, da affidare ad una classe intera, ma persino con una sceneggiatura – se preferite: un livello assai complesso di regia, montaggio, elaborazione sequenziale – che andava ad illustrare verbalmente… Con un misto di seriosità da docente, di eccitazione autorale, d’ilare complicità, Paz correva da un angolo all’altro della classe, a spiegare con grandi movimenti delle mani che la sigaretta in primissimissimo piano fa “FIZZ” eppoi il dettaglio entra nelle braci, persino negli atomi delle braci… “per poi aprirsi in un paesaggio cheto, floreale”. Oddio!

Questa sceneggiatura scelta per la mia classe, intitolata “LSD”, era tuttavia imbastita su una trama abbastanza semplice (qualche variante più “pesa” l’aveva già svolta – e la svolgerà pure in seguito – per proprio conto, con condimento di eroine, perversioni sessuali, ed altro): un personaggino alla “Pazienza” si FACEVA – in questo caso scolastico, d’un non troppo letale acido – e viveva tutta una serie di situazioni improntate al senso d’inadeguatezza nei confronti della gente e del mondo circostante (insomma il classico Sè sfigato, che non sa, da solo, evitare le merdozze invariabilmente pronte da calpestare).

Come è ovvio la vicenda era ridotta all’osso – detta tutta: l’omino piglia l’LSD, versa per paradisi lisergici, ma giunge una tardiva telefonata, un amico con due ragazze l’aspetta per una serata al cinema, dove egli naturalmente ANDRÀ… I dialoghi sono in puro stile Pazienza, pur ondeggiando tra il trito e ritrito (“ma Gino non doveva telefonarmi alle otto?”… “vatti a fidare dei Gini!”), alla comica collaudata (“sessanta biglietti”… “di prima classe!”), con qualche ciliegina di crudele ironia nei confronti di chi s’avventura nelle percezioni alterate (Gino: “dai non fare il cretino, sta per iniziare il film”… “Ai confini della realtà!”).

Nella minuziosa descrizione dei piani cinematografici, dei campi e controcampi, della curiosa preferenza (almeno in quest’occasione) per una quantità di “dettaglio” e “ancor più dettaglio”, Pazienza si riservò di svelare la fine del fumetto. L’ultima striscia, su pagine di sei vignette x tre strisce, andava riempita con una moltitudine di piccoli quadretti, che diventavano sempre più piccoli, sempre più frenetici, fino a sparire nel nulla. Forse la maschera del cinema, che era appena giunta ad allontanare il “viaggiatore” dalla sala cinematografica, avrebbe chiamato l’ambulanza, e lui “naaaa!!!” avrebbe fatto resistenza sferrando qualche pugno micidiale, per poi inoltrarsi allucinato tra le ombre delle vie bolognesi eppoi… “regaz, solo un’idea, finitela voi come vi pare!”.

Molti si cimentarono.

Per non trovarsi con cento “LSD” il giorno della consegna, Pazienza, come accennato, aveva preparato un secondo soggetto, dal poetico titolo “Il mare d’inverno”. Anche qui con un omino sfigatissimo, alle prese con un lungo viaggio in treno alla volta di Rimini.

Giorgio Franzaroli, in seguito universalmente misconosciuto per la prova che diede (ma come? un soggetto inedito di Pazienza, e nessun bibliografo di Apaz lo cita?), disegnò la storia riminese con uno stile vivace ed autonomo, e la fece andare in stampa sul giornale a fumetti di tutto rispetto “Nuvola Bianca”, diventandone di fatto il disegnatore ufficiale.

Quella dell’acido, “LSD”, fu realizzata fino in fondo da Roberto Carubbi – il quale però rimaneggiò pesantemente sia i dialoghi che la sceneggiatura, ma anche in questo caso il risultato fu professionale e tanto divertente da rotolarsi sul pavimento.

Io - m’ero cimentato con la stessa storia d’acidi di Carubbi - avevo preferito seguire alla lettera le istruzioni di Paz, realizzando il mio primo fumetto a colori con sufficiente elaborazione proto-professionale. Mi arresi all’ultima striscia. Quadretti all’infinito mi ispiravano il niente. Annotai, sul bordo inferiore della tavola, “vedi Creepy n. 23 pag. 46”, dove presumo qualcuno aveva avuto quella stessa idea dei quadretti all’infinito, molto prima di Paz.

Chissà: se un giorno volessi mettere a posto quelle tavole – “brutte ma fedeli”, direbbe il poeta – oltre a rifare il lettering, e ripulire un fracco di sbavature, dovrei consultare quel famoso Creepy, e, finalmente illuminato, concludere la storia in bellezza.

Resta un mistero: io non ho mai avuto numeri di Creepy… e, allora?